Siamo in riunione con i genitori e la preside della scuola di B. mentre accogliamo le preoccupazioni dei suoi genitori in merito ai comportamenti tenuti da B. Cerchiamo di raccontare loro chi è B.: un ragazzino difficile, arrabbiato con il mondo, che a 11 anni cerca di affrontare la vita da solo, trasformando il dolore in rabbia, figlio di genitori tossicodipendenti e con un padre violento. Spieghiamo ai genitori che anche con noi in comunità era aggressivo ma che una volta andati oltre la sua rabbia e cominciato a dare nome al suo dolore. B. ha cominciato a legarsi agli operatori e ha cominciato a fidarsi e a rispettare tutti un po’ di più.
Una mamma mi interrompe dicendo: “Si, tutto quello che dici, ma noi dobbiamo preoccuparci dei nostri figli che non riescono a finire il programma”.
Oggi abbiamo un incontro con la preside in cui valuteremo se cambiare scuola a B. perché nei giorni scorsi l’unico modo trovato da un professore per fermarlo in seguito ad un’aggressione verbale, è stato quello di scaraventarlo su una sedia nonostante la responsabile della comunità si fosse frapposta tra lui e il bambino. Il professore, in seguito all’intervento della dirigente, non si è fermato ed il ragazzo ha pregato la responsabile di essere portato via; più tardi B. le dirà che il professore lo aveva riportato a rivivere le stesse sensazioni vissute in seguito agli atteggiamenti del padre.
La domanda nasce spontanea: noi tutti – presidi, professori, genitori – che scuola vogliamo per i nostri figli? Che direzione sta prendendo la scuola?
Non solo non si riescono a gestire i B. ma anche tutti gli altri ragazzini difficili, per i più svariati motivi. La soluzione della scuola è di espellerli. E poi?! Ma allora come si deve misurare la scuola, su quali parametri? L’affluenza di figli di famiglie garantite che sono a volte casi problematici, o sulla competenza educativa, che viene fuori proprio con l’interazione con i ragazzi più difficili? E noi genitori “degli altri” pensiamo veramente che ciò che conta sia finire i programmi? Oggi che siamo adulti cosa conta per noi che sappiamo il numero dei cantici della Divina Commedia, il nome dei romanzi di Ariosto, o che sappiamo stare nelle relazioni, saper avere a che fare con tutti, riconoscendo i nostri punti di debolezza e cercando di migliorare? Cosa vogliamo insegnare ai nostri figli? Quali valori trasmettiamo espellendo ed emarginando anche dal percorso didattico i ragazzini con problemi?
Oggi forse per la prima volta in 17 anni di lavoro di comunità, dovremmo prendere atto che non siamo riusciti ad accogliere un ragazzino nelle scuole del nostro territorio, togliendogli anche la possibilità di costruire nuovi legami. Io credo che su questo dobbiamo interrogarci tutti, perché è un fallimento, un fallimento per tutti noi adulti che avremmo dovuto occuparci di B., un fallimento anche per i suoi compagni, per i suoi insegnanti e per il sistema Scuola che fallisce da un punto di vista umano prim’ancora che educativo.